Girato da Vittorio De Seta nel 1966 senza copione, è dedicato, come si legge nei titoli di testa, ad Ernest Bernhard, medico ebreo allievo di Jung fuggito in Italia durante la persecuzione nazista e con il quale De Seta era in analisi dal 1958.
Michele, un giovane intellettuale in preda ad una profonda crisi esistenziale e psicologica che lo allontana dalla realtà, dagli amici, dalla donna a cui era legato, vaga senza una meta in un parco, dove osserva a volte con distacco, a volte con curiosità morbosa gli altri: … Guardo gli altri felici … che cosa sentono ?... cerco di comprendere ma è inutile … Per questo suo errare ambiguo, sarà scambiato per un “voyeur”, verrà accerchiato, picchiato e ricoverato in una clinica psichiatrica dove verrà sottoposto ai trattamenti terapeutici dell’epoca, elettroshock e contenzione. All’amico Ugo, unica presenza di vita reale in tutto il film, dopo i trattamenti subiti, dirà:… credi forse, che non mi renda conto …? non si può disporre così della vita di un uomo … Michele fuggirà dalla clinica per raggiungere i luoghi della sua infanzia e della sua prima giovinezza, la casa materna dove non era più stato. L’impatto emotivo sarà molto forte, da questo momento, inizierà a rivivere più che ricordare il passato, alla ricerca di una soluzione per il proprio disagio. Il film diventa una sorta di seduta psicoanalitica in cui la narrazione è quella della visione onirica, con flussi temporali dal passato al presente, e contesti che oscillano e si alternano tra mondo interiore e mondo reale.
Egli, rivivrà da adulto e spesso solo come osservatore, situazioni e avvenimenti del passato, tra cui il rapporto con la madre interpretata da Lea Padovani, tirannica, severa (appare con un frustino in mano), in atteggiamento fallico, la quale preferisce il fratello (Gianni Garko) a Michele stesso. Questi due personaggi contribuiscono fortemente al disagio del protagonista: il fratello è bello, sereno, ride sempre, ha successo con le donne, mentre Michele è umbratile, tormentato, esattamente come il padre deceduto che la madre gli presenta colpevolizzandolo, come un essere inutile, inetto, capace solo di divertirsi con le donne, simile a lui e quindi passivo, buono solo a sognare. Michele rivive la propria timidezza nel rapporto con Rina (suo primo amore), spregiudicata e concreta quanto lui è austero e visionario; rivive il legame con Simonetta, una figura infantile e delicata che mostra nei suoi confronti atteggiamenti di tenerezza e protezione. La morte improvvisa del fratello e di Rina, avvenimento per il quale non prova nessuna pena ma solo sensi di colpa, l'abbandono di Elena (la sua fidanzata) sono ulteriori prove dolorose. Michele ha bisogno, per porre fine ai patimenti, di curare le sue ferite, simbolicamente rappresentate da immagini di forbici, coltelli, arpioni, uccelli che precipitano dal cielo. Il film si conclude con l’immagine del protagonista, stanco, sfinito, tormentato, dalla figura schiacciata da linee scure, che afferma: … non bastava ricordare, ho dovuto rivivere la sofferenza di allora per tornare a vivere una seconda vita … Nel 2006 il Moma di New York lo ha consacrato tra i film più importanti del cinema italiano.
Jacques Perrin ha ricevuto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile alla Mostra Internazionale d’ Arte Cinematografica, Venezia, nel 1966